Durante la campagna elettorale per i referendum i "riformisti" del Pd stanno erigendo a loro ronzino di battaglia il fatto innegabile che l'abolizione del Jobs Act di Renzi non porterebbe automaticamente al ritorno all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori ma alla legge Fornero che con Monti, Bersani segretario del Pd, lo aveva già malridotto. Vero.
Non vere, o almeno discutibili, sono le conseguenze economiche che tale abrogazione avrebbe sul lavoratore. Il Jobs Act in vigore oggi è meno severo di quello originariamente approvato dal governo Renzi nel 2015, ministro del Lavoro Poletti, con il supporto di Confindustria.
Su di esso la Corte costituzionale è intervenuta più volte. Nel 2018, ha cancellato il sistema degli indennizzi fissi e ha previsto che sia il giudice a stabilirli tenendo conto di vari fattori tra cui non solo l’anzianità professionale.
Sempre nel 2018, poi, il decreto “Dignità” ha aumentato le indennità risarcitorie fino a un massimo di 36 mensilità rispetto alle 24 previste dal Jobs Act.
La questione è complicata, ma proprio una vittoria del Sì potrebbe avere un effetto di semplificazione. Eliminerebbe, infatti, la disparità di diritti tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, per 3,5 milioni di lavoratori, dando loro maggior potere contrattuale nei confronti delle Aziende.
Il fatto è che l’attuale disciplina dei licenziamenti è un gomitolo di leggi e sentenze stratificate in maniera eterogenea e per questo molto complessa, tra licenziamenti disciplinari e discriminatori pretestuosi e puramente economici.
Per completare il panorama tra i referendum indetti dalla Cgil c'è, poi, quello per dare ai giudici maggiore discrezionalità per la quantificazione degli indennizzi per le aziende al di sotto dei 15 dipendenti escluse dall'art. 18; quello sulla reintroduzione della causalità nei contratti a termine; quello sulla responsabilità delle Aziende committenti per i subappalti. Al di là di ogni considerazione "particulare", rimane il dato politico.
Con il Sì ai quattro referendum della Cgil sul lavoro i lavoratori avrebbero più o meno potere? A rispondere basterebbe l'atteggiamento di tutte le destre, da quelle post fasciste a quelle post berlusconiane, che invitano ad andare al mare, temendo una botta politica.
C'è poi Renzi, che invita a votare No a tutti e quattro i referendum della Cgil e Sì a quello sulla cittadinanza. Il suo ronzino da battaglia, in particolare sul Jobs Act sua creatura, è che il Sindacato di Landini - sostenuto dalla maggioranza del Pd di Elly Schlein, da Avs e M5s - guarderebbe indietro. Non arriva alle battute sul Sindacato rimasto ai gettoni telefonici dentro l'Iphone del 2014, quando elesse a nume tutelare Marchionne, ma siamo là. Solo che anche lui deve moderarsi avendo scelto, a differenza di Calenda, la strategia del rientro nel centrosinistra.
Ma tutti coloro che da posizioni moderate e liberal avversano con vari argomenti i referendum della Cgil, a cominciare dai "riformisti" del Pd, dovrebbero domandarsi se in questi anni, in particolare quelli di Letta, Renzi e Gentiloni, i lavoratori sono andati avanti o indietro, seguendo quelle ricette emblematizzate dal Jobs Act? Se i loro salari e il loro potere contrattuale sono cresciuti o diminuiti? E se la Meloni continua imperterrita su quella strada o no?
È del tutto naturale, perciò, che i referendum mirino a sanare, almeno fino al possibile, le cadute subalterne "riformiste" passate del Pd e, nel contempo, a dare battaglia alla Meloni per il presente e il futuro della condizione dei lavoratori.
Perché alla fine in gioco c'è un quesito molto semplice: riportare o no il lavoro e i lavoratori al centro della vita del paese, come detta la lettera e lo spirito della Costituzione.
Aldo Pirone
scrittore e editorialista
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