La curva che vedete impennarsi (grafico in basso) misura l’aumento delle entrate fiscali da dazi osservate di recente negli Stati Uniti.
Prima del 2025, un movimento molto più contenuto era stato osservato nel periodo del primo mandato dell’amministrazione Trump, quando la mania daziaria del presidente era ancora così estrema.
Nel grande calderone del dibattito pubblico sui dazi americani l’impennata degli introiti fiscali può facilmente essere fonte di grandi equivoci. Uno per tutti: l’idea che magari questi introiti provengano dai paesi che Trump ha deciso di daziare. Sembra incredibile, ma molti alimentano questo equivoco.
Ovviamente non è così. I dazi, come sa chiunque abbia un po’ di voglia di approfondire, li pagano alla dogana gli importatori, ossia le imprese americane che si approvvigionano all’estero per le loro necessità. Ricordo che la gran parte delle importazioni Usa sono di beni intermedi. Quindi, in sostanza, i 350 miliardi di dollari che il governo ha incassato negli ultimi mesi sono dollari di residenti americani che producono merci americane. In sostanza è come se il governo avesse aumentato le tasse sulle aziende per lo stesso importo. Solo che se lo avesse fatto ne avrebbero scritto tutti. Ma poiché l’aumento è indiretto – ma non per questo meno doloroso – questa stretta fiscale, probabilmente una delle più dolorose della storia recente Usa, è rimasta fra le cronache specialistiche.
Possiamo farcene un’idea più chiara leggendo un bel paper di Bankitalia dedicato proprio all’analisi macroeconomiche dei dati sull’economia americana, estrapolando dalla documentata ricognizione alcuni dati e riflessioni che ci aiutano a inquadrare meglio la questione. Prima però può essere utile una visione d’insieme sul deficit commerciale americano, che nella narrazione dell’amministrazione Usa è il motivo che giustifica la politica di dazi.
In sostanza, gli Usa hanno uno sbilancio di oltre 1,2 trilioni di dollari sulla bilancia delle merci (i servizi non fanno parte di questa partita). Questo ci dà un’idea del livello di entrate fiscali che può provocare una politica daziaria a 360 gradi. Un’altra osservazione. Fra il 2017 e il 2019, quando gli Usa applicarono i primi dazi, lo sbilancio commerciale è aumentato, non diminuito. Ciò per dire che usare i dazi per abbassare il deficit commerciale funziona solo nell’economia a fumetti.
Veniamo al focus di questo post: gli effetti fiscali. Gli economisti di Bankitalia ricordano che l’amministrazione Usa dichiara senza problemi che le tariffe sono una fonte di ricavi fiscali, senza sottolineare però che “a meno che le tariffe non siamo completamente assorbite dai prezzi alle importazioni, da un punto di vista economico funzionano come una tassa per il paese importatore”.
Secondo i dati raccolto dalla Banca, dall’inizio della guerra commerciale, il totale degli incassi da dogana ha raggiunto i 233 miliardi, con la gran parte, pari a 211 miliardi, che derivano dalle tariffe applicate alla Cina.
A livello delle famiglie americane, l’impatto “è stato tangibile”, scrive Bankitalia, Secondo alcune stime, l’aumento delle tariffe ha direttamente fatto aumentare le tasse fra i 200 e i 300 dollari l’anno per le famiglie americane in media. “E’ un grande aumento di tasse rispetto agli standard storici”.
Al tempo stesso però il governo ha dovuto concedere dei sussidi, quindi aumentare le uscite fiscali, per compensare gli effetti derivanti dalle contromisure applicare ai produttori Usa. In particolare al settore agricolo, che ha avuto aiuti per 28 miliardi fra il 2018 e il 2019.
Quindi, da una parte il governo prende e da un’altra dà. Ma questo attivismo è tutto interno. I dazi sono un problema americano, innanzitutto. Nostro di conseguenza. Non il contrario.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”