Ciò che scopriremo negli anni a venire è se il nostro sia un tempo di transizione verso un nuovo ordine o, al contrario, l’epoca nella quale il vecchio ordine userà le maniere forti per “congelare” lo status quo, pure a rischio di chiudere l’economia in una gabbia di ferro e magari di fuoco.
Il fenomeno Trump, con gli Usa che sembrano entrati nel loro peggiore sogno distopico. L’Europa che barcolla ma (finora) non molla, senza però che dia un reale segnale di vitalità. E la Cina, che è diventata troppo grande per non partecipare al gioco. Nulla di tutto questo si comprende se non si prova a guardare il quadro generale.
Si può farlo in tanti modi. Qui ci proviamo servendoci di un capitolo dell’external report pubblicato di recente dal Fmi, che ragiona sul futuro del sistema monetario internazionale partendo dallo status quo – una evidente dominanza del dollaro – ricordando il passato (quando si consumò la transizione dalla sterlina al dollaro) e interrogandosi sul futuro, che, se ci pensate è un modo obliquo di raccontare il presente.
Partiamo dall’attualità. Il grafico sopra fotografa il peso specifico delle principali aree economiche del globo confrontato con quello del peso specifico delle rispettive valute. Pure senza esser fini economisti, si capisce perfettamente quanto il dollaro sia predominante. Anche nelle valuta di fatturazione, dove lo yuan cinese avrebbe qualche ragione di affermarsi come concorrenziale, visto l’ampio circuito di scambi nella quale la Cina è inserita, la valuta di Pechino esprime molto poco del suo potenziale. Esattamente come l’euro, che sta addirittura sotto lo yuan in questo segmento, e trova una qualche ragione di consolazione nel mercato dei bond internazionali, dove probabilmente anche grazie all’attivazione del fondo PNRR ha aumentato il volume delle sue emissioni.
Questo ci conduce al secondo punto, che trovate riepilogato nel grafico a seguire. 
La forza del dollaro la si comprende osservando la profondità dei suoi mercati. Quello dei bond governativi ormai sfiora i 35 trilioni. Significa che ci sono 35 trilioni di ricchezza che è disposta a denominarsi in dollari – un notevole indicatore della fiducia globale – ma non solo. Significa che si ha a disposizione una marea di dollari dove gli investitori, un po’ come Paperon de Paperoni, possono nuotare senza tema di rimanere a secco o di non trovare acquirenti per i loro bond Usa qualora se ne vogliano disfare. E’ quello che si dice un mercato liquido e profondo.
Se guardate alle altre valute, noterete subito che malgrado i progressi di euro e yuan, praticamente non c’è partita. E questo vale anche per l’equity. Se guardiamo alla somma del valore di mercato di bond e azioni, abbiamo un mercato statunitense che vale 120 trilioni di dollari, il triplo di quello dove arrivano Cina ed Europa ognuna per conto suo. Questa capitalizzazione non cresce per miracolo. Ma perché chi ha soldi da investire giudica conveniente farlo negli Usa. E questo malgrado tutto.
Questa situazione di partenza sembra immodificabile. Ma sembrava così anche agli inizi del secolo scorso, quando al posto del dollaro c’era la sterlina.

Notate che il peso specifico dell’economia britannica su quello globale era declinante già dall’inizio del ‘900, senza che ciò impedisse alla valuta di Londra di primeggiare sui mercati finanziari. La transizione vera e propria si è consumata negli anni ’40, alla fine della guerra. Il declino della sterlina è rapido e costante, proprio come l’ascesa del dollaro e coincide con l’entrata in vigore del sistema di Bretton Woods.
Ricordo ai non appassionati che quel sistema prevedeva robusti controlli sui flussi di capitale, che furono rapidamente elusi con la creazione del mercato dell’eurodollaro, ossia depositi in dollari di banche americane in Europa, favoriti da linee di swap concesse dalla Fed e con la collaborazione della Bis di Basilea. Fu uno di quei casi in cui la ragione dei banchieri, che devono far girare i soldi, si fece beffe di quella della politica, che credeva fosse saggio controllare i flussi di capitale, e solo molti anni dopo inizierà a liberalizzare i flussi di capitale.
Ciò per dire che i cambi di scenari, nel sistema monetario internazionale, sono quasi sempre frutto di shock, e che comunque si trova sempre il modo di far girare i soldi.
Quanto al futuro, il dilemma si presenta con molta chiarezza, e questo lo rende ancora più sfidante. Da una parte il mantenimento dello status quo, che potrebbe passare anche per l’utilizzo di stablecoin agganciate al dollaro, come già si può intuire da certe manovre che si osservano negli Usa con il beneplacito dell’amministrazione in carica. Oppure un sistema multipolare, dove finalmente altre valute si candidano a interpretare il ruolo di safe asset, ossia di paradiso degli investitori che non sanno dove mettere i soldi.
Ogni corno del dilemma porta con sé rischi e opportunità. Avere una dominanza rende il tutto più prevedibile, cosa che agli investitori piace molto. Ma espone al rischio dei capricci del dominatore, come stiamo scoprendo in queste mesi convulsi. Avere tante opportunità dà maggiore libertà, ma incorpora più rischi e provoca volatilità. Se qualcuno ricorda cos’era il mercato valutario europeo prima dell’euro capirà bene cosa intendiamo qui.
Quindi che fare? L’ipotesi di multipolarità è legata ad eventi a dir poco improbabili, come la formazione di un mercato unico dei capitali e di un’unione bancaria in Europa e la convertibilità dello yuan in Cina. Improbabili ma possibili. Mentre è assai più probabile che l’attuale dominanza Usa si mantenga ancora a lungo. Rimane solo da osservare con attenzione, senza fare troppi progetti. Anche perché la storia spesso se ne infischia dei nostri propositi. E forse è meglio così.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”

