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Mercoledì, 10 Dic 2025

Nel mondo della medicina di precisione l’ivacaftor, uno dei primi farmaci approvato contro la fibrosi cistica, è celebre per essere un “potenziatore”: agisce migliorando il funzionamento di una proteina (il CFTR), permettendo quindi ai polmoni dei pazienti di funzionare meglio.

Un team di ricercatori dell’Università di Padova, guidato dal prof. Giorgio Cozza del Dipartimento di Medicina Molecolare, ha svelato che questo farmaco possiede anche una “seconda identità”, finora insospettata, che agisce indipendentemente dalla sua missione principale. Lo studio, dal titolo Beyond CFTR: Ivacaftor's Role in Restoring Cellular Redox Balance and Preventing Ferroptosis, è stato pubblicato sulla rivista «Redox Biology».

Per capire la scoperta, bisogna immaginare le nostre cellule “sotto assedio”. In altri stati patologici, oltre alla fibrosi cistica, le cellule subiscono un grave stress ossidativo: è come se le loro membrane “arrugginissero” a causa di molecole instabili chiamate radicali liberi. Quando questo danno ai lipidi delle membrane diventa insostenibile, si innesca una forma di morte cellulare violenta chiamata ferroptosi.

Lo studio dimostra per la prima volta che l’ivacaftor, oltre al suo noto meccanismo principale, si comporta come un vero e proprio “spazzino” chimico: intercetta e neutralizza direttamente i radicali liberi che attaccano i lipidi, bloccando la reazione a catena che porterebbe alla morte della cellula. A differenza di molti antiossidanti che non riescono ad agire efficientemente sui lipidi e si consumano rapidamente, l’ivacaftor mostra una resistenza sorprendente, rimanendo attivo e proteggendo le cellule per giorni. Inoltre, il farmaco favorisce il ripristino delle difese antiossidanti naturali della cellula. Questa capacità protettiva funziona anche in cellule che non esprimono il bersaglio primario (il CFTR): ciò suggerisce che l’effetto antiossidante dell’ivacaftor vada oltre la fibrosi cistica e potrebbe un giorno essere utilizzato per trattare altre malattie caratterizzate da forte stress ossidativo.

«Il nostro studio è un esempio di quanto sia utile scoprire le potenzialità nascoste di una molecola già approvata e sicura dal punto di vista clinico. Un fenomeno che si chiama riposizionamento di farmaci (drug repurposing) e che permette di accelerare incredibilmente i tempi per nuove applicazioni terapeutiche, ottimizzando risorse che altrimenti richiederebbero decenni per essere sviluppate da zero – commenta Giorgio Cozza, coordinatore dello studio –. Ma la forza di questo lavoro risiede anche nella solidità dell’approccio multidisciplinare che ha dissezionato il meccanismo d’azione dal livello macroscopico a quello atomico».

Oltre al Dipartimento di Medicina Molecolare, hanno collaborato allo studio i Dipartimenti di Scienze del Farmaco e di Scienze Chimiche dell’Università di Padova attraverso la validazione biologica di Michela Rubin, Ilaria Artusi e Valentina Bosello Travain, l’analisi biochimica e lipidomica di Monica Rossetto, Antonina Gucciardi, Maria Luisa di Paolo e Giovanni Miotto e l’approccio atomistico computazionale di Davide Zeppilli e Laura Orian. Ha contribuito alla ricerca anche José Pedro Friedmann Angeli dell’Università di Würzburg, esperto mondiale di ferroptosi.

La ricerca è stata sostenuta dalla Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica – ETS e dal PNRR spoke 7 Biocomputing CN3.

(Fonte: Università di Padova)

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