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Venerdì, 05 Dic 2025

Con ricorso proposto innanzi alla Corte di Cassazione, un Istituto bancario ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Firenze, che aveva sostanzialmente confermato la decisione del Tribunale di Livorno.

In accoglimento delle istanze di un dipendente, infatti, il Tribunale aveva accertato non solo il diritto del ricorrente all'inquadramento nella categoria dirigenziale a decorrere dall'ottobre 2001 ed al relativo trattamento economico, oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva ed alla corresponsione delle differenze retributive, ma anche un evento lesivo per la salute del ricorrente, causato dai comportamenti tenuti dalla Banca datrice di lavoro, con conseguente condanna della stessa al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

Tale ultima statuizione è stata fatta rientrare non nella fattispecie del mobbing bensì dello straining.

Per la declaratoria di mobbing, infatti, appare ormai consolidato l’orientamento della Suprema Corte in base al quale necessitano: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Diversi sono, invece, sempre per i giudici della Cassazione, gli elementi che caratterizzano lo straining ovvero una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato che, nel caso di specie, è consistita nell’allontanamento del dipendente dalla direzione generale, nonché nell'invio di lettere di scherno diffuse in banca, dove il lavoratore stesso avrebbe subito azioni ostili, anche se limitate nel numero e, in parte, distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing) ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, per garantire il quale, il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni "stressogene", che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

Questo stress forzato, scrivono i giudici, può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo, con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ.

In conclusione, la Suprema Corte, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 7844 del 29 marzo 2018, ha respinto il ricorso proposto dall’Istituto bancario, riconoscendo le ragioni del lavoratore.

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