Fare gol non serve a niente. Il pallone nella rete della finanza, di Luca Pisapia, con illustrazione di Jean Jacques Balzac – add editore – 2024 – pp.168, euro 18,00; in versione ebook, euro 9,99.
Recensione di Adriana Spera
Si parla tanto di calcio italiano in declino: per penuria di nuovi talenti; perché è ingabbiato nel meccanismo del fair play finanziario; per presunte inefficienze e incapacità della Federcalcio; perché le squadre investono troppo poco, disponendo di risorse ben più esigue di quelle a disposizione delle squadre degli altri paesi.
Ma davvero le cose stanno così?
Il giornalista sportivo Luca Pisapia nel suo Fare gol non serve a niente. Il pallone nella rete della finanza, una approfondita indagine su quel che è divenuto il calcio, individua tutt’altre cause. Fin dall’esergo, una frase detta durante il Qatar Economic Forum dello scorso anno da Gerry Cardinale, fondatore di RedBird Capital Partners, nonché proprietario dell’AC Milan: «Nel calcio i tifosi vogliono sempre vincere, ma vincere è noioso».
Pisapia smonta sin dall’incipit i nostri sentimenti nostalgici «Il pallone non è mai stato innocente. Ha perso la verginità appena nato, sulle navi mercantili britanniche che lo trasportavano insieme ai prodotti tessili e siderurgici per espandere la gloria e il profitto dell’impero. Si è imposto come dispositivo disciplinare e di controllo durante le peggiori dittature e democrazie del secolo breve, e verso la fine è diventato un formidabile strumento di accumulazione di capitale. E se anche è diventato evidente solo oggi che si è trasformato in un veicolo finanziario slegato dalla produzione materiale, il pallone è stato da sempre uno strumento nelle mani del capitale nel sanguinoso conflitto contro il lavoro.»
Sano realismo. Se una volta si pensava che il trinomio dio, patria e famiglia stesse ad indicare ciò che tiene incatenati gli uomini al sistema, col tempo, quale elemento di distrazione di massa ha agito nel sedare e distrarre gli uomini più del calcio? Quanto tempo dedicato ad esso piuttosto che alle lotte per rivendicare i propri diritti?
Il pallone, fin dal giorno della nascita della Football Association, il 26 ottobre 1863 presso la Freemasons’ Tavern di Londra, è ininterrottamente una «merce che conquista i cuori e le menti di miliardi di persone in tutto il pianeta», è quella che Marx definì una merce feticcio. Non si tratta di un gioco nuovo, esso compare e scompare nel corso dei secoli, ma in piena rivoluzione industriale è funzionale a placare il conflitto capitale lavoro, a distrarre gli operai dalle loro rivendicazioni, così come gli altri sport e, in particolare, tutti quelli di squadra che, con le loro regole, tendono a fornire un modello di comportamento: la violenza è completamente bandita, scrive il nostro autore: «Lo sport moderno nasce per fermare il furore proletario».
E così il pallone diventa una merce di rapida esportazione in tutto il mondo grazie alle navi mercantili. Praticato inizialmente dall’aristocrazia nelle esclusive pubblic school, presto, grazie a molte industrie che finanziano la nascita di squadre operaie, si diffonde nel proletariato, prima britannico e poi mondiale.
Oggi, la FIFA (Fédération Internationale de Football Association) conta 211 Paesi affiliati, un numero che supera persino quello degli stati membri dell’ONU che, come noto, sono 193. Il calcio odierno non è più un sistema di valori, promesse, premi e punizioni ma, in quest’epoca di tecno feudalesimo e di società dell’immagine, è piuttosto un apparato preposto al controllo totale della vita.
Il calcio ha avuto le sue epoche d’oro durante tutte le dittature, tant’è che il fascismo ne fece un mito, in quegli anni vennero costruiti molti degli attuali stadi e nacquero molte società calcistiche (e oggi il decreto sport sembra un revival di quella stagione). «A dimostrare l’inestricabile esistenza di un fil rouge, o meglio di un filo nerissimo, tra dottrina fascista e dottrina neoliberale, è il pallone. – scrive Pisapia – Non è un caso che il fascismo sia un vettore di trasformazione decisivo anche per lo sport moderno, per come lo conosciamo ancora oggi. Il valore di scambio fantasmatico della merce sportiva è il suo valore fascista».
Un’operazione che, dando risultati, come la coppa del mondo nel 1934 e nel 1938 la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1936, serve a distrarre gli italiani da un regime sempre più opprimente e a costruire la narrazione di un paese vincente.
Insomma, il calcio è sempre servito a far dimenticare la ferocia dei regimi dittatoriali e dei loro complici, basti pensare al fatto che nel dopoguerra furono proprio gli imprenditori che avevano appoggiato il fascismo e il nazismo a investire nel calcio, consci che il pallone è fondamentale per disciplinare e distrarre le masse.
In tutta Europa, il calcio fu il collante intorno cui fu ricostruito il tessuto sociale di Paesi devastati dai conflitti interni prima ancora che dalla guerra appena conclusa. In quegli anni, iniziano le rivendicazioni dei calciatori ancora poco remunerati, tuttavia, «Nell’economia capitalista il pallone si inserisce ancora come una merce con un basso valore di uso, ma un altissimo valore di scambio: il suo portato mistico e fantasmatico – scrive Pisapia, che conclude – La lezione del fascismo non si dimentica: il calcio è un elemento fondamentale per la costruzione e il mantenimento del potere, a livello ideologico e a livello pratico. Nelle dittature il calcio muove consensi, nelle democrazie sposta voti».
Negli anni, i calciatori diventano sempre più eroi di cui si narrano le gesta (non sempre vere), prodotti dell’industria culturale funzionali ai cambiamenti dell’economia dettati dall’arrivo della terza rivoluzione industriale che segna la fine dell’economia reale e la nascita dell’economia finanziaria. I paesi occidentali abbandonano il sistema di produzione fordista, smantellano il welfare state e appaltano la produzione dei beni ai Paesi del cosiddetto Secondo e Terzo Mondo ossia dell’ex blocco sovietico e delle ex colonie.
«Nel mondo della globalizzazione finanziaria la merce dell’industria culturale ha assunto un potere totale e totalizzante. E il calcio ne è diventato il più fedele servitore». Per il nostro autore, ma crediamo non per quanti hanno ammirato le sue gesta calcistiche e il suo proverbiale fair play in campo, il massimo interprete ne è David Beckamp.
Anche nel calcio, per così dire, si abbandona il modello fordista in cui ognuno gioca sempre lo stesso ruolo e nasce il calcio totale, ognuno è intercambiabile «il pallone non è più semplicemente merce, si fa sistema. Il pallone agisce sui bisogni e sui desideri della società a livello biopolitico prima ancora di essere calciato. Al calciatore macchina si affianca la macchina del calcio». Icona di questa nuova epoca è Endrik Johannes Cruijff, il calciatore capace di pensare, che si fa imprenditore di se stesso.
Negli anni ’80, assume un ruolo determinante la televisione e il calcio diventa un business globale, tutto incentrato su scommesse imprenditoriali e promesse di guadagni futuri, sul modello dei flussi di capitale mossi dalla finanza, e nulla sarà più come prima. Berlusconi e Sacchi ne saranno i massimi interpreti. Essi trasformarono il gioco del calcio in un prodotto dell’industria dello spettacolo che consente a chi ne è a capo di guadagnare enormemente. Persino la tattica di gioco era pensata per la televisione, con il gioco a zona che consente di inquadrare l’intera azione delle squadre in campo.
La televisione intanto incanta, addormenta i popoli (e ancor più lo faranno gli smartphone), Pisapia la definisce giustamente: «l’arma finale che serve al neoliberismo per affermarsi su scala globale, sotto forma di flussi immateriali di capitale finanziario».
Con l’affermarsi dell’economia dei flussi finanziari, che va a sostituire l’economia della produzione di beni di consumo grazie soprattutto al controllo dell’informazione (telecomunicazioni e informatica le reti su cui corrono i flussi immateriali del nuovo capitale), il pallone muta di paradigma, non ha più unicamente una funzione di disciplina e controllo sociale: produce utili, e che utili! E così, nel mondo del calcio entrano nuovi imprenditori e i primi fondi d’investimento che hanno solo uno scopo: il profitto.
È finita l’epoca degli imprenditori che investivano nel calcio per disciplinare il tempo libero dei propri dipendenti, ottenere pubblicità, migliorare la propria visibilità nel mondo politico ed economico, guadagnare voti nelle elezioni locali o nazionali, agire sui sogni e sui bisogni della popolazione per indirizzarli e meglio governarli e con essi finisce l’epoca degli stadi superaffollati grazie a prezzi dei biglietti abbordabili. Gli stadi diventano sempre più piccoli, riservati ad un pubblico di élite che può permettersi di spendere, stadi però costruiti pesando sulla collettività come dimostra, da ultimo, la vicenda dello stadio San Siro, impianti che sono solo una minima parte di progetti edilizi speculativi.
E i vecchi spettatori? A casa, sempre che possano permettersi gli abbonamenti televisivi per vedere le partite. E i giocatori? Asset su cui speculare, sono diventati un flusso di capitale finanziario attraverso le Third Party Ownership (TPO), un meccanismo solo apparentemente vietato, ossia quegli accordi mediante i quali un soggetto terzo, pur non facente parte del sistema sportivo come, ad esempio, un fondo di investimento o di private equity, acquista i diritti economici di un calciatore professionista al fine di generare un profitto. Agenzie che determinano non solo l’intero mercato calcistico ma persino le formazioni delle stesse squadre.
Attraverso questi meccanismi il football è diventato il paradiso dei debiti, le società aumentano di valore a dismisura, che vincano qualcosa o meno. È la fine del calcio, diventato solo un veicolo finanziario per penetrare il mercato immobiliare e quello azionario, e soprattutto per accaparrarsi i diritti televisivi. Per i fondi arabi, poi, si arriva ad avere persino riflessi geopolitici.
Il debito è il grimaldello che utilizzano i fondi e le agenzie di intermediazione per entrare nel pallone, approfittando della voragine del debito se lo comprano e poi, a loro volta, fanno debiti per poi rivendere ad altri fondi i nuovi debiti creati. Col tempo, i protagonisti di questi meccanismi sono un gruppo sempre più ristretto di fondi.
E così, conclude il nostro autore: «dove tutte le squadre sono in mano a un unico padrone, vincere non è più importante. Fare gol non serve a niente». Nel momento in cui entrano i fondi d’investimento «il calcio diventa un sistema finanziario globale. O meglio, un sistema feudale».
Adriana Spera