- Dettagli
- di Luca Marchetti

di Luca Marchetti
American Hustle di David O. Russell, con Christian Bale, Amy Adams, Jeremy Renner, Bradley Cooper, Jennifer Lawrance, Luis C.K, durata 138’; nelle sale dal 1 gennaio 2014, distribuito da Eagle Pictures.
Il Principe di Niccolò Machiavelli, editore Donzelli, Roma, 2013, pp. CXXII-350, euro 30
Recensione di Roberto Tomei
Come tutti i classici, Il Principe è una lettura “doverosa”, che non può mancare nella biblioteca degli uomini di cultura, tanto più se italiani.
E’ Natale. Si può regalare e sarà un dono gradito. Ma si può anche acquistare per leggerlo o rileggerlo. Si tratta della volta buona, perché l’editore, Carmine Donzelli, ne ha curato anche la “traduzione” a fronte in italiano moderno, impresa compiuta alcuni anni fa solo da Piero Melograni.
Opera meritoria, perché la lingua del Fiorentino non è semplice, sicché talora finisce per allontanare il lettore, fermo restando che è sempre bene dare uno sguardo anche all’originale, per le sue straordinarie suggestioni, assolutamente inimitabili.
Basterebbe solo la fatica della “traduzione”, che speriamo sia la prima di una serie, per indurre a recarsi in libreria e accaparrarsi il prezioso volume, ma questo si segnala altresì per la vasta e dotta introduzione di Gabriele Pedullà, utilissima per comprendere Machiavelli e il suo tempo.
Di contro alla tradizionale lettura “cinica “dell’opera, il lettore potrà fare alcune scoperte: per esempio, che il principe deve essere leale e che deve cercare di reggersi sul consenso. Ma ci sono diversi altri aspetti del pensiero del segretario fiorentino che meritano di essere ulteriormente approfonditi, accantonando una volta per tutte falsi luoghi comuni.
Com’è noto, proprio nel dicembre del 1513 Machiavelli annunciava a Francesco Vettori la nascita del Principe. Sono passati cinquecento anni, ma a leggerlo francamente non li dimostra.
I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller, con Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott, Kathryn Hahn, Shirley MacLaine, Patton Oswalt, durata 114’, nelle sale dal 19 dicembre 2013 distribuito da 20th Century Fox
Recensione di Luca Marchetti
Remake del classico Sogni proibiti di Norman Z. McLeod (film del 1947), il progetto di un nuovo adattamento della fortunata novella di James Thurber era passato tra diverse mani prima di arrivare alla scrivania di Ben Stiller.
Oggettivamente il nome del comico americano non era ai primi posti nella lista per il regista perfetto cui affidare un progetto ambizioso e visionario come questo (tra gli addetti ai lavori le attese sullo script di Steven Conrad erano altissime).
Nonostante le interessanti prove già fornite dietro la macchina da presa (il demenziale Zoolander, l’esplosivo Tropic Thunder), Stiller è per tutti un volto legato indissolubilmente a un determinato tipo di commedia fatto di risate facili e gag sboccate (l’indimenticabile scena chiave di Tutti pazzi per Mary, ad esempio).
Un attore con questo curriculum cosa poteva dare alla storia di Walter Mitty, uomo comune perso nei suoi sogni ad occhi aperti, confinato senza prospettive nel suo laboratorio fotografico? La risposta, sorprendentemente, è un film sincero, in cui i vistosi e innegabili difetti (attribuibili ad una sana ingenuità) sono compensati dal suo grande cuore. Non date retta a chi liquiderà questa pellicola come un’opera infantile, piena di scelte registiche scontate e dal fastidioso spirito nostalgico/anti-modernista.
I sogni segreti di Walter Mitty è prima di tutto una favola, il racconto commovente di un tardivo esordio nel mondo di un uomo cui la vita ha impedito di esprimere il suo potenziale. Con la scusa di trovare il negativo perduto per la copertina dell’ultimo numero della leggendaria rivista Life, e spinto dall’amore inaspettato per la collega Cheryl (un’inedita Kristen Wiig, altra affermata comedian statunitense), Walter deciderà di usare il proprio potere onirico per diventare finalmente un uomo e vivere per una volta un’avventura fuori dalla propria testa.
Stiller, nel doppio ruolo di regista e protagonista, decide di seguire lo spirito originale di Thurber e non strafare con espedienti visivi tronfi e auto-celebrativi (come avrebbero probabilmente fatto Michel Gondry o Jean-Pierre Jeunet).
Affidandosi agli splendidi paesaggi fotografati da Stuart Dryburgh e concedendosi solo qualche sporadica scappatella alla sua vena più “rumorosa”, Stiller riesce a regalare al pubblico una favola moderna e originale, dove ogni elemento è immediato e funziona per il meglio. Perfino la presenza di Sean Penn, nei panni dell’avventuroso fotografo Sean O’Connell, in altri film spesso ingombrante e sopra le righe, qui è calibrata e realmente efficace per l’economia finale della storia.
Insomma, nonostante tutto quello che potete pensare, nel bene e nel male, su Ben Stiller, questa volta l’attore vi sorprenderà, aprendovi il suo cuore in un’edificante e emozionante pellicola.
Oldboy di Spike Lee, con Josh Brolin, Samuel L. Jackson, Sharlto Copley, Elizabeth Olsen, Michael Imperioli, James Ransone, Max Casella, durata 104’, nelle sale dal 5 dicembre 2013 distribuito da Universal Pictures
Recensione di Luca Marchetti
La sfida di dirigere il remake americano di un classico contemporaneo come Oldboy del sudcoreano Park Chan-wook (vincitore del Gran Premio della Giuria a Cannes 2004) era, davvero, ai limiti del possibile. In questo caso non stiamo parlando di una sconosciuta pellicola orientale, popolare solo a un pubblico ricercato e snob, ma di un vero cult, una delle opere cinematografiche più rilevanti e importanti del passato decennio. Il coraggio di Spike Lee di mettersi in gioco (Spielberg, il primo regista contattato, se n’è ben guardato) è dunque da premiare, nonostante il risultato finale sia una pellicola in fin dei conti dimenticabile.
Il film paga, appunto, il peccato di dipendere troppo dall'originale, un’opera che in molti abbiamo imparato a conoscere e amare. Per chi, come chi scrive, la pellicola di Park è un punto di riferimento, quest’operazione commerciale non potrà mai avere alcun senso, nonostante le scelte registiche e le variazioni narrative (il finale) fatte per rendere la storia accettabile per un vasto pubblico americano.
Solo chi arriverà puro alla visione del film potrà davvero apprezzare a pieno la pellicola di Lee, godendosi tutta la sua forza devastante. Solo in questo modo, ad esempio, si potranno gustare le sofferte performance degli attori protagonisti. Josh Brolin e una sempre più convincente Elizabeth Olsen (già lanciata dal destabilizzante La fuga di Martha), infatti, fanno propria la storia regalando allo spettatore due interpretazioni viscerali. Soprattutto il protagonista, attore eccessivamente sottovalutato nel panorama hollywoodiano contemporaneo, si concede totalmente alla mano di Lee, annullandosi nell’infernale evoluzione morale del suo personaggio. Altri commenti meritano le comparsate (davvero pochi minuti per loro) dei comprimari Sharlto Copley (caratterista sudafricano abituato a ruoli ambigui) e Samuel L. Jackson (sorprendente la sua collaborazione con Lee, nonostante, il litigio piccato che ha visto coinvolto anche Quentin Tarantino) che sono, ahinoi, caricaturali, destinate solo a colorare lo sfondo.
La regia di Lee, invece, ha il buon gusto di adattarsi allo script del buon mestierante Mark Protosevich (Thor, Io sono Leggenda) e di puntare su idee poco invadenti ma dall’impatto visivo notevole (tutte le scene ambientate nella stanza/prigione). E’ un peccato che quando arrivi il momento di prendere una strada opposta alla pellicola di Park (si veda la leggendaria scena del combattimento con il martello) il regista americano piuttosto che attingere al proprio immaginario preferisca presentarsi con una ripetitiva e scialba brutta copia.
Alla luce di ciò, il nuovo Oldboy non può sfuggire dall’etichetta di ”operazione inutile”, figlia dell’incapacità hollywoodiana di puntare su concept e storie originali. Anche cosi, però il film di Spike Lee riesce a conservare un minimo del fascino e della forza dell’originale, guadagnandosi la dignità di essere visto. A patto, sia chiaro, che non si voglia, per qualche assurdo motivo, recuperare in qualche modo il film di Park.
Indagini statistiche sull’efficacia della preghiera di Francis Galton, editore Il melangolo, Genova, 2013, pp. 67, euro 7
Recensione di Roberto Tomei
Confesso di aver acquistato questo simpatico libretto perché attratto dal titolo, che combina insieme cose che mi sembravano così lontane tra loro da farmi ritenere - evidentemente, a torto - che tra esse non vi potessero essere rapporti di sorta.
Francis Galton (1822-1911) è stato un intellettuale prolifico, avendo scritto più di 340 tra articoli e saggi, e un pensatore polivalente, essendosi applicato a problematiche afferenti a discipline diverse: dalla geografia alla psicometria, dall’eugenetica alla statistica, ecc.
In quest’ultimo campo del sapere, in particolare, scopre il concetto, oggi centrale, di correlazione e valorizza l’uso del questionario come strumento di indagine conoscitiva, ma a lui si devono anche altri concetti, come quelli di deviazione standard e di analisi della regressione.
Nella seconda metà dell’Ottocento, all’epoca in cui Galton scrisse il suo libro (si tratta, invero, di un articolo), che risale precisamente al 1872, c’era un gran fervore di studi sulla questione dell’efficacia della preghiera, evidentemente presa da tutti molto sul serio.
Assodata per i credenti, l’efficacia della preghiera venne da Galton sottoposta a verifica empirica, facendo ricorso a un particolare protocollo di analisi, che in qualche modo anticipa la procedura del doppio cieco.
Ciò che stupisce non poco è che l’interesse per una questione come quella dell’efficacia della preghiera non è stato una curiosità circoscritta all’Inghilterra vittoriana, visto che – come do viziosamente ci avverte Romolo Giovanni Capuano nella sua bella introduzione – a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino a oggi,” molti scienziati di tutto il mondo, seri e riveriti, hanno dedicato tempo, energie e denaro-a volte, molto denaro- a tentare di far luce, una volta per tutte, sugli interrogativi che già stimolavano le menti di Tyndall e Galton”.
Il dato certo è che tutti questi studi non avrebbero fatto altro che confermare i risultati delle ricerche di Galton, cioè che le preghiere non servono. Gli aderenti alle diverse religioni sono, dunque, avvertiti.
Poi, com’è naturale, ognuno si regola come crede.
Se ti piace quello che leggi, puoi aiutarci a continuare il nostro lavoro sostenendoci con quanto pensi valga l'informazione che hai ricevuto. Anche il costo di un caffè!