di Adriana Spera
L’8 marzo dovrebbe essere una giornata di festa per noi donne ma non lo è; ancora non può esserlo se è vero, come è, che quasi ogni giorno – anche ieri è accaduto – una donna viene uccisa o ridotta in fin di vita dal proprio compagno, marito, padre, fratello o comunque da un uomo.
I maltrattamenti fisici e psicologici sono innumerevoli e riguardano ogni ceto sociale. C’è chi, nella solita ottica securitaria, invoca pene più severe per punire gli autori dei delitti, un modo come un altro per negare le radici del problema che è culturale e non di sicurezza. Il problema è l’immagine di donna sottomessa, asservita, oggetto in balìa del maschio tipica della cultura italiana, una cultura che ha ripercussioni sul piano familiare (la donna italiana mediamente dedica al lavoro di cura 5ore e 35 minuti - se lavora anche fuori casa arriva a 11 ore - contro 2ore e 16 minuti del maschio).
Lavoro, retribuzione e pensioni
Su quello lavorativo, v’è una delle percentuali più basse in Europa di occupate, con una ulteriore divergenza tra nord al 57% e sud 30,7% (lontanissimi dall’obiettivo europeo per il 2010 del 60%) ed una divergenza nelle retribuzioni che nel trattamento pensionistico può raggiungere il 20% a svantaggio delle donne. Una cultura difficile da sradicare come dimostra il piano d’azione posto in campo dai ministri Sacconi e Carfagna: Documento Italia 2020 programma di azioni per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Esso si articola in 5 linee d’intervento: potenziamento dei servizi per la prima infanzia; finanziamento di progetti di conciliazione a livello aziendale; promozione del part-time e dei lavori verdi; contratti di inserimento nel mezzogiorno. Nella pratica, si è abbandonato il piano d’azione straordinario per gli asili nido posto in essere nel 2006 dal governo Prodi che stanziò 740 mln, qui si parla genericamente di incentivare il terzo settore con buoni lavoro da utilizzare per avviare i nidi familiari. Si stanziano appena 40 mln per telelavoro al rientro dalla maternità. I contratti a tempo parziale, che aumentano il divario retributivo uomo-donna, sono aumentati ma con una prevalenza nella fascia d’età 55-64 e nel centro nord su 363.000 sono solo 60.000 quelli stipulati a sud dove riguardano prevalentemente donne sopra i 35 anni impegnate nel lavoro di cura familiare a genitori anziani.
Non si investe nei servizi pubblici essenziali
In nessuna regione si raggiunge l’obiettivo prefissato dalla carta di Lisbona di garantire l’asilo nido al 33% dei bimbi, al nord la media è 25%, al sud 6%, nonostante il 40% delle famiglie vorrebbe accedervi. Gli incrementi raggiunti sono dovuti essenzialmente all’offerta privata cresciuta in dieci anni del 42%.
Il pubblico non investe più in questi servizi essenziali e se lo fa, come nel caso dei 100.000 posti nei nidi aziendali nella P.A., attinge le risorse dai risparmi conseguiti con l’aumento dell’età pensionabile delle donne che produrrà altri problemi. Il generale disinvestimento sui servizi pubblici ricade sulle donne, dalla riduzione dei trasporti pubblici, ai tagli nell’assistenza socio-sanitaria ad anziani e disabili. La legge 53/00, che riconosceva il diritto di cura è del tutto inosservata e, anzi, l’art. 9 che prevedeva agevolazioni alle imprese che ponessero in essere politiche di conciliazione è stato cassato con l’art. 38 della l.69/09. Per tali politiche ci sono appena 15 mln ed i progetti vengono finanziati in tempi biblici. D’altronde, come potrebbero andare diversamente le cose in un paese in cui le donne elette in Parlamento, pur con un sistema a liste bloccate, sono appena il 10,8% e nelle regioni, dove si decidono le politiche di welfare, appena l’11,6%. Per cambiare le cose noi donne uno strumento l’abbiamo dobbiamo votare donna, essendo demograficamente in maggioranza possiamo vincere.