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Venerdì, 05 Dic 2025

Mistaken for Strangers, di Tom Berninger, durata 110’, nelle sale dal 24 luglio 2014 distribuito da Universal Pictures.

Recensione di Luca Marchetti

A volte, specialmente in estate inoltrata, capita che tra le tantissime uscite tecniche e il monopolio dei grandi blockbuster, le case di distribuzione più coraggiose trovino lo spazio per proporre, anche al pubblico italiano, prodotti notevolmente di nicchia, pellicole dal grande fascino, difficilmente commerciabili in altri periodi dell’anno.

Mistaken for Strangers è un chiaro esempio di questa categoria di emarginati.

Diretto dall'originale Tom Berninger, il film è stato considerato uno dei migliori documentari musicali della scorsa stagione, capace di sfruttare, in modo intelligente, l’enorme successo dei The National, una delle realtà più interessanti della scena musicale americana. La band, guidata da Matt Berninger (fratello maggiore del regista), da diversi anni sta riscuotendo grandi successi, realizzando alcuni dei dischi più emozionanti degli ultimi dieci anni e guadagnandosi il rispetto di colleghi e artisti (molte le cover-omaggio dei loro pezzi eseguiti da cantanti affermati, tantissime le loro canzoni usate in film di successo).

Il film di Berninger approfitta dell’importante tour promozionale dell’album High Violet per fare un bilancio della storia e della carriera del gruppo newyorkese.

Mistaken for Strangers, però, non è assolutamente il documentario che ci si aspetterebbe, con il solito menù di interviste, backstage, riprese di concerti e curiosità sul privato dei protagonisti. L’opera prima di Berninger Jr. è piuttosto il delirante viaggio di un intruso scapestrato in un mondo diametralmente opposto al proprio stile di vita.

Non è un caso che nei primissimi minuti lo stesso leader del gruppo presenti il fratello più piccolo come “un metallaro che probabilmente considera l’indie rock come spazzatura”. Poche parole che identificano subito lo spirito con cui il regista decide di fotografare i propri personaggi/amici.

E’ proprio nella sua anarchia narrativa, figlia sicuramente di un’abitudine radicale all’improvvisazione dilettantesca (e le immagini dei primissimi horror amatoriali del regista ne sono una conferma), che risiede la forza del film.

I tentativi, vani, di Berninger per riportare la propria opera nei canoni del genere provocano molti spassosi cortocircuiti, vertigini, che rendono il tutto ancora più surreale (pensiamo ad alcune interviste deliranti o alle fantastiche riprese del concerto per la campagna presidenziale di Obama).

E’ difficile dire quanto gli stessi protagonisti siano stati consapevoli della strada che le riprese stavano prendendo (dall’insofferenza nei confronti dell’invadente regista, sgridato molte volte da un esasperato fratello maggiore, sembra davvero ben poco).

Questo confine sfumato fra realtà e finzione, questo rapporto passionale tra protagonista e autore (ruoli che s’invertono continuamente), però, permette alla pellicola di raggiungere le vette di forza degli ottimi Exit Through The Gift Shop di Banksy ed Io non sono qui di Casey Affleck.

Inoltre, il film di Berninger ha un altro grande merito: fare, in Italia, pubblicità all’opera musicale di artisti straordinari.

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